Approccio alla psicologia che si concentra sull’osservazione del comportamento oggettivo e misurabile.
I disturbi del comportamento alimentare (DCA) o disturbi dell’alimentazione sono patologie caratterizzate da una alterazione delle abitudini alimentari e da un’eccessiva preoccupazione per il peso e per le forme del corpo. Insorgono prevalentemente durante l’adolescenza e colpiscono soprattutto il sesso femminile. I comportamenti tipici di un disturbo dell’alimentazione sono: la diminuzione dell’introito di cibo, il digiuno, le crisi bulimiche (ingerire una notevole quantità di cibo in un breve lasso di tempo), il vomito per controllare il peso, l’uso di anoressizzanti, lassativi o diuretici allo scopo di controllare il peso, un’intensa attività fisica. Alcune persone possono ricorrere ad uno o più di questi comportamenti, ma ciò non vuol dire necessariamente che esse soffrano di un disturbo dell’alimentazione. Ci sono infatti dei criteri diagnostici ben precisi che chiariscono cosa debba intendersi come patologico e cosa invece non lo è.
I principali disturbi dell’alimentazione sono l’anoressia nervosa, la bulimia nervosa e il disturbo da alimentazione incontrollata (o binge eating disorder, BED); i manuali diagnostici, inoltre, descrivono anche altri disturbi correlati, come i disturbi della nutrizione (feeding disorders) e i disturbi alimentari sottosoglia, categoria utilizzata per descrivere quei pazienti che pur avendo un disturbo alimentare clinicamente significativo, non soddisfano i criteri per una diagnosi piena.
Soffrire di un disturbo dell’alimentazione sconvolge la vita di una persona e ne limita le sue capacità relazionali, lavorative e sociali. Per la persona che soffre di una disturbo dell’alimentazione tutto ruota attorno al cibo e alla paura di ingrassare. Cose che prima sembravano banali ora diventano difficili e motivo di ansia, come andare in pizzeria o al ristorante con gli amici, partecipare ad un compleanno o ad un matrimonio. Spesso i pensieri sul cibo assillano la persona anche quando non è a tavola, ad esempio a scuola o sul lavoro; terminare un compito può diventare molto difficile perché nella testa sembra che ci sia posto solo per i pensieri su cosa si “deve” mangiare, sulla paura di ingrassare o di avere una crisi bulimica.
Solo una piccola percentuale di persone che soffrono di un disturbo dell’alimentazione chiedono aiuto. Nell’anoressia nervosa questo può avvenire perché la persona all’inizio non sempre si rende conto di avere un problema. Anzi, all’inizio, la perdita di peso può far sentire la persona meglio, più magra, più bella e più sicura di sé. A volte le persone ricevono complimenti durante la loro iniziale perdita di peso e questo può rinforzare la sensazione di stare facendo la cosa giusta. Quando le cose invece cominciano a preoccupare, perché la perdita di peso è eccessiva o comunque comporta un cambiamento importante della persona, molte persone non sanno come affrontare l’argomento. In genere sono i familiari che, per primi, allarmati dall’eccessiva perdita di peso, si rendono conto che qualcosa non va. Anche per loro però non è facile intervenire, soprattutto quando la figlia o il figlio non hanno ancora nessuna consapevolezza del problema e rispondono con frasi come “non ho nessun problema …sto benissimo!”.
Anche chi soffre di bulimia nervosa spesso si rivolge ad un terapeuta solo dopo molti anni da quando il disturbo è cominciato; come nell’anoressia, inizialmente non si ha una piena consapevolezza di avere una malattia, ma soprattutto un forte senso di vergogna e di colpa sembra “impedire” alla persona di chiedere aiuto o semplicemente di confidare a qualcuno di avere questo tipo di problemi. Il fatto di non riconoscere di avere un problema o di usare i sintomi del disturbo alimentare per cercare di risolvere le proprie difficoltà può avere delle importanti conseguenze sulla richiesta di un trattamento.
Una caratteristica quasi sempre presente in chi soffre di un disturbo alimentare è l’alterazione dell’ immagine corporea che può arrivare ad essere un vero e proprio disturbo. La percezione che la persona ha del proprio aspetto ovvero il modo in cui nella sua mente si è formata l’idea del suo corpo e delle sue forme, sembrano influenzare la sua vita più della sua immagine reale. Spesso chi soffre di anoressia non riesce a giudicare il proprio corpo in modo obiettivo; l’immagine che rimanda lo specchio è ai loro occhi quella di una ragazza coi fianchi troppo larghi, con le cosce troppo grosse e con la pancia troppo “grande”. Per le persone che soffrono di bulimia nervosa l’angoscia può essere ancora più forte per il fatto che il fatto di perdere il controllo sul cibo fa percepire il peso corporeo (che molto spesso è normale) come eccessivo. Sia nell’anoressia nervosache nella bulimia nervosa, la valutazione di sé stessi dipende in modo eccessivo dal peso e dalla forma del proprio corpo.
Spesso il disturbo alimentare è associato ad altre patologie psichiatriche, in particolare la depressione, ma anche i disturbi d’ansia, l’abuso di alcool o di sostanze, il disturbo ossessivo-compulsivo e i disturbi di personalità. Possono essere presenti comportamenti autoaggressivi, come atti autolesionistici (ad esempio graffiarsi o tagliarsi fino a procurarsi delle piccole ferite, bruciarsi parti del corpo) e tentativi di suicidio. Questo tipo di disturbi occupano uno spazio molto particolare nell’ambito della psichiatria, poiché oltre a “colpire” la mente e quindi a provocare un’intensa sofferenza psichica, essi coinvolgono anche il corpo con delle complicanze fisiche talvolta molto gravi.
I principali disturbi dell’alimentazione e della nutrizione sono:
Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) è caratterizzato dalla presenza di ossessioni e compulsioni.
Un’ossessione è un pensiero (la paura di una fuga di gas che faccia esplodere l’intero palazzo), un’immagine (una scena violenta vista al cinema), un ricordo che si intromette nella mente di una persona contro la sua volontà, producendo uno stato d’ansia.
Una compulsione è un comportamento ripetitivo (lavarsi le mani o verificare di aver chiuso il gas un certo numero di volte) o un atto mentale (pregare o ripetere mentalmente alcune parole) che la persona si sente obbligata ad eseguire secondo rigide regole, che essa stessa decide, per ridurre l’ansia o per prevenire un evento temuto.
La maggior parte delle persone si rende conto che il contenuto dei pensieri ossessivi è assurdo o quanto meno esagerato e che non c’è alcun collegamento tra la compulsione e ciò che dovrebbe neutralizzare.
Quanto è frequente
Si stima che circa il 2-3% della popolazione è affetta da DOC, il che significa che in Italia 1- 1,5 milioni di persone soffrirebbero di questo disturbo. Non c’è una differente distribuzione in base al sesso. L’esordio si verifica di solito in età giovanile, ma spesso i primi segnali compaiono già nell’infanzia o nell’adolescenza.
Le ossessioni più frequenti riguardano la paura dello sporco (escrementi, liquido seminale), delle malattie contagiose (aids, epatite virale) e della contaminazione (insetticidi, veleni, radiazioni).
Nel tentativo di contrastare queste paure vengono eseguiti rituali (cioè comportamenti compulsivi) che riguardano la pulizia della persona (lavaggio delle mani protratto talvolta fino al sanguinamento) e dell’ambiente (disinfezione degli oggetti, delle stoviglie, della casa ripetuta più volte utilizzando alcol o potenti disinfettanti). I comportamenti di evitamento consistono nel tentativo di non entrare in contatto con tutto ciò che potrebbe essere “contaminato” (bagni pubblici, maniglie delle porte, denaro) o “infetto” (animali, persone ammalate o che hanno avuto contatti con ospedali o cimiteri) e possono essere tanto estesi da non consentire l’allontanamento dalla propria abitazione. Nei casi più gravi questa diventa l’unico “posto sicuro” e chiunque entri, essendo considerato una possibile fonte di contaminazione, si deve sottoporre a un rigido programma di pulizia.
Comuni sono anche le ossessioni a contenuto aggressivo verso se stessi (ferirsi involontariamente) o verso gli altri (aver provocato involontariamente incidenti) con necessità di controllarsi allo specchio, per verificare di non essere ferito, o di telefonare alla Polizia, per accertarsi che non si sia verificato un incidente sul tragitto appena percorso.
Talvolta le ossessioni riguardano la possibilità di perdere il controllo e mettere in atto comportamenti auto-aggressivi (suicidarsi) o etero-aggressivi (uccidere un bambino) per difendersi dai quali il soggetto tende a nascondere tutti gli oggetti potenzialmente pericolosi (coltelli) e ad evitare le situazioni “a rischio” (avvicinarsi alla finestra, rimane da solo con un bambino).
Ulteriori temi ossessivi sono: la corretta esecuzione di normali attività con necessità di verifiche ripetute (aver chiuso il gas o la porta di casa) che possono protrarsi anche per ore, i numeri (targhe automobilistiche) seguiti da rituali numerici (eseguire complicate operazioni con i numeri di targa della prima automobile incontrata uscendo da casa), l’ordine (avere tutti i libri disposti in base all’altezza) con necessità di disporre gli oggetti secondo precise regole, la sessualità (avere impulsi incestuosi), la religione (bestemmiare in chiesa) o le riflessioni esistenziali (lunghe e inconcludenti riflessioni sul perché della vita).
Cit. A. Tundo
La diagnosi di Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP) si applica a bambini che esibiscono livelli di rabbia persistente ed evolutivamente inappropriata, irritabilità, comportamenti provocatori ed oppositività, che causano menomazioni nell’adattamento e nella funzionalità sociale. Un bambino al quale viene posta questa diagnosi, deve mostrare tali sintomi in maniera persistente per almeno 6 mesi e i sintomi devono causare menomazione nel funzionamento personale e sociale. Una storia precoce di DOP è spesso presente in bambini che vengono successivamente diagnosticati come Disturbo della Condotta (DC). Il DOP emerge solitamente in maniera più precoce (di solito intorno ai 6 anni) rispetto al DC (età di esordio intorno ai 9 anni). Ad ogni modo, molti bambini vengono diagnosticati come DOP in età preadolescenziale.
Sintomi del Disturbo Oppositivo Provocatorio
A – Una modalità di comportamento negativistico, ostile e provocatorio che dura da almeno 6 mesi, durante i quali sono stati presenti 4 (o più) dei seguenti criteri:
B – L’anomalia del comportamento causa compromissione clinicamente significativa del funzionamento sociale, scolastico o lavorativo.
C -I comportamenti non si manifestano esclusivamente durante il decorso di un Disturbo Psicotico o di un Disturbo dell’Umore.
D – Non sono soddisfatti i criteri per il Disturbo della Condotta, e, se il soggetto ha 18 anni o più, non risultano soddisfatti i criteri per il Disturbo Antisociale di Personalità.
Fattori di rischio
I fattori di rischio che favoriscono l’insorgenza del DOP e che aumentano la possibilità di comportamento dirompente sono:
Terapia
L’intervento cognitivo-comportamentale per i bambini e gli adolescenti con problemi di condotta e di aggressività è basato su un modello socio-cognitivo scientificamente fondato, relativo alle modalità di elicitazione della rabbia nei bambini con PAC ed ai processi attraverso i quali questa sfocia in risposte aggressive. Nel modello in questione si opera una distinzione tra i deficit cognitivi, che si riferiscono ad inabilità in specifiche attività cognitive, e le distorsioni cognitive, che si riferiscono, invece, alle percezioni erronee e/o disfunzionali dei soggetti con problemi di aggressività. Tale modello socio-cognitivo rende evidente il fatto che, quando il bambino incontra uno stimolo potenzialmente attivante la rabbia, sono soprattutto i processi di percezione e di valutazione che questi compie ad influenzare le sue reazioni emozionali e fisiologiche, piuttosto che l’evento in quanto tale. Queste percezioni e valutazioni possono essere accurate o inaccurate e, in larga parte, sono influenzate dalle iniziali aspettative del soggetto, che filtrano la percezione della situazione e orientano l’attenzione selettiva a specifici aspetti, o stimoli, dell’evento attivante. Se il bambino ha interpretato l’evento come minaccioso, provocatorio o frustrante, egli sperimenterà un’attivazione neurovegetativa intensa e successivamente ingaggerà in un set di attività cognitive, dirette a decidere circa un opportuno corso di azione per rispondere all’evento stesso, altamente influenzate dalla valutazione iniziale e dal relativo arousal.
L’arousal interno, infatti, ha un’interazione reciproca con i processi di valutazione del bambino, dal momento che egli deve interpretare ed etichettare le connotazioni emotive di tale attivazione neurovegetativa e, inoltre, a causa del fatto che l’accresciuta attivazione emotiva focalizza l’attenzione del bambino soprattutto sugli stimoli associati con possibili minacce, egli tenderà molto frequentemente a sentirsi arrabbiato. Questi tre insiemi di attività interne – (1) percezione e valutazione, (2) attivazione neurovegetativa e (3) problem-solving interpersonale – contribuiscono alle risposte comportamentali del bambino e alle successive conseguenze che egli elicita da parte dei coetanei e degli adulti e che sperimenta internamente come auto-valutazioni. Le reazioni da parte delle altre persone possono poi diventare degli eventi stimolo, che danno vita ad un nuovo ciclo, attraverso circuiti di feedback, diventando ricorrenti unità comportamentali, collegate tra loro. Non di rado può essere utile concentrare l’attenzione sulle cognizioni dei genitori e degli insegnanti piuttosto che su quelle dei bambini. In generale, i genitori possono fare attribuzioni pessimistiche riguardo al locus of control del problema, la sua stabilità e la sua possibile risoluzione. Per esempio, le madri di bambini con problemi comportamentali tendono a credere che la causa (e di conseguenza la soluzione) delle difficoltà del figlio riguardi il bambino e non il genitore o l’interazione tra l’uno e l’altro. Le attribuzioni materne, infatti, tendono a focalizzarsi su caratteristiche stabili e disposizionali del bambino, come spiegazione primaria delle sue difficoltà. Le madri potrebbero pensare, per esempio, (a) che i loro bambini siano responsabili dei loro comportamenti; (b) che il bambino intenzionalmente si comporti male manifestando rabbia o ripicche/dispetti nei confronti dei genitori e (c) che i problemi del bambino siano relativamente non modificabili o incontrollabili. In altre parole, i genitori dei bambini con tali problemi potrebbero non accettare facilmente la premessa che le loro pratiche genitoriali abbiano giocato un ruolo importante nello sviluppo dei problemi o che possano essere usate per modificare l’attuale situazione. Inoltre, alcuni genitori non si sentono competenti o capaci di fronteggiare il comportamento del bambino e sperano che il terapeuta si assuma la piena responsabilità di aiutare il figlio. In altri casi, alcuni genitori ritengono che i problemi del bambino siano totalmente causati da loro, perché non sono bravi genitori. Le attribuzioni genitoriali negative e pessimistiche sono da tenere in debito conto, dal momento che, non solo generano stati emotivi negativi nei genitori (per esempio rabbia e frustrazione), ma li inducono anche ad assumere delle pratiche disciplinari fallimentari o peggiorative. Insieme all’aiuto del terapeuta si possono imparare delle tecniche comportamentali per aiutare sia il bambino che i genitori a mitigare gli atteggiamenti e riconoscere ed arrestare i circoli viziosi che portano alla persistenza del problema.
Cit. apc-spc
Cosa sono.
Si tratta di condizioni caratterizzate da difficoltà di attenzione che si possono manifestare in diversi modi e possono presentarsi a qualsiasi età. L’elemento comune è ovviamente il deficit attentivo, definizione comunque molto vaga perché i tipi di attenzione sono molteplici e le loro diverse alterazioni comportano diversi segni. Il disturbo più famoso in questo ambito è senza dubbio l’ADHD (disturbo da deficit attentivo con iperattività), sebbene una compromissione dell’attenzione sia tra i problemi più frequenti anche in persone con lesione cerebrale (conseguente solitamente a trauma cranico o ictus). Nei bambini bisogna sempre distinguere queste condizioni dalla normale vivacità. Chi presenta questo tipo di problemi può manifestarlo in diversi modi:
Nei bambini queste difficoltà molto spesso portano a scarso rendimento scolastico, peggioramento delle relazioni con i coetanei, rimproveri da parte degli adulti, senso di inadeguatezza, ansia e demoralizzazione, che a loro volta accentuano i problemi di base. Quanto appena detto di solito persiste in adolescenza e in età adulta anche se le manifestazioni si modificano: all’iperattività si sostituisce un senso interiore di agitazione e l’inattenzione si evidenzia con scarsa organizzazione delle proprie attività che si traducono in una scadente resa scolastica, lavorativa e sociale.
Come si diagnosticano.
I deficit attentitivi si evidenziano spesso durante una valutazione condotta da uno psicologo e/o da un neuropsichiatra infantile (affiancati spesso da altre figure specializzate in queste problematiche). L’iter diagnostico prevede di solito la raccolta di informazioni da diverse fonti (come genitori, insegnanti e il paziente stesso) con interviste semistrutturate e/o questionari, colloqui con paziente e familiari e una valutazione testistica approfondita (vedi qui un elenco di test attentivi) per conoscere le difficoltà e i punti di forza della persona in questione.
Come si trattano.
Alla fine del percorso diagnostico si possono mettere in atto specifici interventi personalizzati in base al profilo del paziente, come ad esempio, il parent training, il training cognitivo, la psicoterapia (quando opportuna) e, nei casi in cui sia stata posta diagnosi di ADHD particolarmente severa, la terapia farmacologica (soprattutto quando gli altri approcci non hanno dato i risultati sperati). In ambito scolastico lo studente con disturbo dell’attenzione può usufruire, a seconda del caso, della normativa BES del 2012 (con le relative personalizzazioni del piano didattico) o della legge 104 del 1992.
L’ADHD
è un disturbo del comportamento caratterizzato da sintomi di inattenzione e/o impulsività e iperattività che impattano negativamente su comportamento e performance in molti contesti, sia a scuola che a casa (APA, 1994). Nell’80% degli individui i sintomi persistono in adolescenza e in età adulta comportando importanti effetti se non accuratamente gestiti (Faraone et al., 2003). È emerso infatti come questo disturbo aumenti il rischio di basso livello socio occupazionale, scarse relazioni interpersonali, abuso di sostanze e atti violenti (Biederman et al., 1997). I familiari del bambino affetto da tale patologia spesso presentano problemi associati che possono essere rappresentati ad esempio da aumentati livelli di stress, depressione e disaccordi coniugali (Mash, & Johnson, 1993; Murphy, & Barkley, 1996). È importante chiarire che non si tratta di verità assolute ma solo di possibili rischi, cioè sarebbe un grave errore fare un’associazione automatica fra una diagnosi di ADHD e i problemi appena esposti. I bambini che presentano questo disturbo vengono solitamente descritti altamente distraibili, senza voglia di prender parte a compiti cognitivamente impegnativi, facilmente annoiabili, con scarsa cura dei dettagli, propensi a perdere gli oggetti, poco inclini a completare i compiti a casa, lenti a comprendere e a eseguire le istruzioni. Sono poco capaci di stare fermi, come se fossero attivati da un motorino, appaiono impazienti, con scarso controllo degli impulsi. Ognuno di questi sintomi può essere presente nella gamma di comportamenti di gran parte dei bambini, ma in alcuni casi viene definito come un disturbo, cioè quando tutto ciò causa un’interferenza significativa nelle attività quotidiane. Come per la maggior parte dei casi, le categorie diagnostiche in ambito psicologico indicano delle macroaree che racchiudono persone con profili fra loro assai diversi. L’ADHD non fa eccezione. Nel caso specifico, gran parte delle differenze possono dipendere da variabilità del quoziente intellettivo, grado di compromissione dell’attenzione e delle funzioni esecutive (soprattutto per quanto riguarda le loro sottocomponenti) e altre condizioni che spesso si associano al disturbo ipercinetico (per esempio, disturbo oppositivo provocatorio, disturbi della condotta, disturbi d’ansia e disturbi dell’umore, dislessia, discalculia, disgrafia, disortografia e, meno frequentemente, disturbo ossessivo compulsivo, disturbo da tic e disturbo bipolare) (AAP, 2000; Rader et al., 2009). Valutare queste abilità nello specifico permette di tarare un trattamento nel modo più accurato possibile.
Cit. I. Anemone
Potremmo considerare l’umore come una “linea emotiva fluttuante” che in condizioni di normalità si colloca in posizione neutra. la maggior parte degli individui che non sono esposti a condizioni sollecitanti, di stress o di euforia, mantiene un umore tendenzialmente neutro. Quando invece si sperimenta una condizione sollecitante, positiva o negativa che sia, l’umore tende a fluttuare spostandosi in misura congruente a ciò che si è sperimentato. Per fare un esempio, se ricevessimo un regalo inaspettato e piacevole da una persona cara, il nostro umore migliorerebbe e, dopo un po’ di tempo (generalmente qualche ora) tornerebbe alla posizione neutra iniziale. Allo stesso modo, se scoprissimo di aver forato la gomma dell’auto che stiamo guidando, il nostro umore peggiorerebbe fluttuando verso il basso. Tuttavia, come nel caso precedente, dopo un po’ di tempo (generalmente qualche ora) tornerebbe nuovamente alla posizione neutra iniziale. La fluttuazione dell’umore sarà commisurata all’entità della sollecitazione emotiva. Se, ad esempio, al posto della foratura della gomma, sperimentassimo il furto dell’auto, il nostro umore fluttuerebbe più incisivamente verso il basso, e il tempo necessario per raggiungere la condizione neutra sarebbe certamente maggiore (alcuni giorni ).
Il disturbo dell’umore, pertanto, può essere considerato come una disfunzione di questa fisiologica modalità, e si caratterizza, ad esempio, per un’intensità troppo elevata rispetto alle sollecitazioni emotive (ad esempio una gomma forata potrebbe rappresentare un ostacolo insormontabile, oppure ricevere un regalo inaspettato potrebbe tradursi in una di gioia incontenibile). Altra caratteristica tipica del disturbo dell’umore è la tendenza al variare ciclicamente senza apparenti spiegazioni: momenti alternati di euforia a periodi più o meno lunghi di depressione. In tal caso assistiamo a una fluttuazione oscillante a due poli (disturbo bipolare dell’umore). In altri i casi, invece, l’umore tende a mantenersi prevalentemente verso il basso (disturbo monopolare dell’umore) ad esempio a causa di un evento scatenante che ha contrassegnato negativamente la vita dell’individuo (depressione maggiore) o di una condizione stabile e continuativa che accompagna la persona per lunghi periodi della sua vita (depressione distimica). In generale, quindi, possiamo considerare il disturbo dell’umore come il mancato o improprio funzionamento dell’”omeostasi umorale” o, in altre parole, la difficoltà a raggiungere e mantenere, in assenza di sollecitazioni specifiche, la condizione di “neutro emotivo”.
Cit. M. Ciuffo
In italiano parent training significa letteralmente allenamento dei genitori, e in effetti, per quanto la traduzione possa sembrare semplicistica e banale, si tratta proprio di una sorta di formazione pratica che mira a fornire gli strumenti giusti per gestire situazioni familiari complesse e difficili. Potremmo quindi rendere meglio l’idea parlando più semplicemente di ‘consulenza genitoriale’, ovvero di un percorso attraverso il quale insegnare ai genitori le modalità più idonee per gestire al meglio il processo educativo e/o riabilitativo dei propri figli. L’obiettivo dell’attività consulenziale è fornire le conoscenze, le abilità e gli strumenti necessari per risolvere situazioni familiari problematiche e per correggere eventuali comportamenti errati messi in atto inconsapevolmente dai genitori. L’attività mira, in altre parole, a potenziare le risorse individuali, genitoriali ma anche dei figli.
Spesso la scelta affettiva legata al partner non è cosi “libera” e casuale come immaginiamo ma risente dei nostri modelli relazionali, cioè di quei legami che abbiamo costruito nella nostra prima relazione significativa, con la cosiddetta “figura di attaccamento”.
Il contributo della teoria dell’attaccamento (J. Bowlby) ci ha consentito di capire quanto i primi legami affettivi della nostra vita, (i modelli di attaccamento) si possano ripercuotere nella scelta del partner. Anche l’amore romantico ha a che fare con il nostro bisogno di avere qualcuno con cui sentirci al sicuro e con cui avere un conforto emotivo affidabile. Cerchiamo connessione, protezione, qualcuno a cui affidarci. Abbiamo bisogno di sentirci accettati e rassicurati dalla persona amata. E corriamo dei rischi per farlo.
cit. F. Orazi
Diversamente da ciò che comunemente si crede, l’ansia è una funzione evolutiva positiva capace di migliorare l’attenzione e convogliare le risorse cognitive su di un compito specifico o nei confronti di una condizione ambientale particolare. Pertanto l’ansia, in condizioni normali, è uno stato emotivo capace di aiutarci nel regolare il nostro comportamento in funzione di ciò che stiamo sperimentando. In alcuni soggetti, purtroppo, l’ansia tende a manifestarsi in modo pervasivo e incontrollato, raggiungendo livelli troppo alti, fino a rivestire forme patologiche e fortemente interferenti nella vita quotidiana. Spesso associata a manifestazioni neurovegetative, come tachicardia, rossore nel viso e sul decolté, respiro corto, tremore digitale, secchezza delle fauci, sudorazione fredda, disfluenza del linguaggio, fame d’aria.
Sono stati descritti diversi tipi di ansia, in funzione dei vari approcci terapeutici e dei vari manuali classificatori di riferimento. Tra questi si evidenziano: ansia generalizza, ansia da prestazione, ansia da separazione, ansia sociale, ansia specifica, disturbo di panico, ansia post-traumatica da stress e ansia acuta da stress. Indipendentemente dalla classificazione, è necessario individuare le caratteristiche con le quali questa si manifesta, la sua durata, la sua pervasività e la sua intensità, al fine di tracciare un possibile percorso di consapevolezza e di individuare tecniche specifiche per il suo contenimento.
Cit. M. Ciuffo